Covid 19: a che punto siamo?

In questa emergenza ognuno contribuisce come può.
Io, tra un progetto da stendere e una rendicontazione da chiudere, posso cercare e aggregare dati da ricerche solide sulla malattia, a uso di chi, da profano, è interessato all’argomento.

La mia unica competenza è, diciamo, bibliografica e deriva dal mio lavoro di progettazione (richiesta di finanziamenti) anche nell’ambito del programma Horizon 2020 (ERC humanities’ cross over with AI). Quindi spesso so poco degli argomenti di cui scrivo, ma so come e dove trovare fonti affidabili.

Quindi…

Dal punto di vista epidemiologico, sembrerebbe che tutto vada per il meglio: in Italia casi totali, ricoveri in terapia intensiva e decessi in calo, al punto che dal 4 maggio alcune attività riapriranno.

Tuttavia il Comitato Tecnico-Scientifico, nel documento Valutazione di politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di esposizione professionale (mi risparmio le citazioni complete), ha ricordato al Governo che un eventuale ripartenza in stile “liberi tutti” porterebbe 150.000 persone (!- la cifra è considerata da alcuni di molto sovrastimata) in terapia intensiva entro il 7 giugno.

Perché?
Semplice: se, come sembrerebbe emergere da un’indagine condotta presso Poliambulanza di Brescia, solo il 15% delle persone è entrato a contatto con il virus (e in provincia di Brescia, una delle più colpite), SARS-Cov 2, che nel frattempo non si è indebolito, ha ampie praterie di persone non infette e senza difese su cui galoppare, se gli si lascia strada libera.
La situazione sarebbe meno rischiosa se i contagiati e guariti (e quindi gli immuni, a giudicare da questa recentissima ricerca pubblicata su Nature Medicine: Antibody responses to SARS-CoV-2 in patients with COVID-19) fossero in numero maggiore.
Una parziale risposta alla domanda può venire solo dai test sierologici condotti sulle varie popolazioni italiane (ricerca molto difficile da impostare) e da indagini mirate su grado, tempi e gravità di eventuale reinfezione di chi è già stato colpito.

Per quanto mi riguarda, a titolo aneddotico segnalo che di tanto in tanto manifesto deboli sintomi che mi ricordano la malattia (congiuntivite, lieve dolore al capo, raffreddore) specie se faccio un allenamento più intenso del solito o se vado a fare la spesa al supermercato…
Mah…

Potrebbe anche essere che il virus, allo stesso modo di una mia vecchia conoscenza batterica (borrelia bugdorferi) non sia più presente nella gola o nei polmoni, ma continui a restare presente, e più o meno silente, in altre parti del corpo anche in chi è apparentemente guarito.

E in effetti due ricerche, Single-cell RNA-seq data analysis on the receptor ACE2 expression reveals the potential risk of different human organs vulnerable to 2019-nCoV infection ed Endothelial cell infection and endotheliitis in COVID-19, segnalano che il virus, che entra nelle cellule tramite i recettori ACE2, può colpire tutte le cellule con recettori ACE2, appunto, e quindi tutti i seguenti organi: “nasal mucosa, respiratory track, bronchus, and lung (…) the cardiovascular system, (heart), the digestive system (esophagus, stomach, ileum, and liver), and the urinary system (kidney and bladder“; la seconda ricerca, autonoma, pubblicata su The Lancet conferma la presenza del virus nelle cellule endoteliali (nei vasi sanguigni) di 3 pazienti deceduti.

Quindi Covid 19 è una malattia sistemica.
Bel problema…

Anche perché in tutti gli organi sopra elencati il virus, se infetta in modo massivo, causa i danni descritti in questo video del dott. Hansen: iper-infiammazione, versamento di liquido, reazione immunitaria spropositata e, nel 25% dei casi, trombi.

Questa ulteriore serie di video del dott. Seheult spiega secondo me in modo esemplare il processo che genera la malattia: il virus, attaccando i recettori ACE2, blocca il relativo enzima, che a sua volta da una parte non può più compensare l’effetto di ACE (vasocostrizione, estromissione di acqua dalle cellule) e dall’altra non può attivare la produzione di angiotensina 1-7, indispensabile per l’innesco del sistema tampone sui radicali liberi costituito dalle superossido-dismutasi; e in persone con una già eccessiva produzione di radicali liberi a livello cellulare quali obesi, diabetici e cardiopatici questo causa un collasso del sistema per abnorme stress ossidativo.

Per fortuna, sotto il profilo terapeutico, sembrano precisarsi alcuni approcci terapeutici efficaci.

A titolo preventivo ho trovato convincente la linea Seheult: vitamina C (effetto tampone sui radicali liberi), D (riduzione delle citochine pro-infiammatorie e aumento di quelle anti-infiammatorie – Evidence that Vitamin D Supplementation Could Reduce Risk of Influenza and COVID-19 Infections and Deaths), zinco (essenziale per la produzione delle superossido-dismutasi e in grado di inibire la replicazione virale) e quercetina (blando antivirale nelle fasi iniziali di infezioni virali e in grado di facilitare la penetrazione dello zinco nelle cellule – Quercetin as an Antiviral Agent Inhibits Influenza A Virus (IAV) Entry).
Non a caso durante la I Guerra Mondiale, in piena epidemia da Spagnola, ai soldati in trincea distribuivano a gogo cipolle, che di quercetina sono ricche (Spagnola, radiografia di un killer di un secolo fa).

Quanto agli approcci in terapia intensiva, mentre perde punti l’idrossiclorochina (troppi problemi cardiaci), sembrano ottenere migliori risultati remdesivir (un antivirale), tocilizumab (che modula l’espressione di IL-6) ed eparina, contro la coagulazione massiva.

I migliori e più efficaci presidi terapeutici non devono però portare a pensare che la malattia possa ora essere presa alla leggera: nonostante i progressi, e se è più facile ammalarsi quanto più in là si va negli anni e quanto più si soffre di sindrome metabolica, tuttavia Covid 19 è e resta un morbo insidioso nel migliore dei casi e molto pericoloso se infetta i tessuti in forma diffusa: vietato consentirgli di scendere nei polmoni e di diffondersi nel corpo.
In ogni caso potremo togliercelo di torno solo quando sarà disponibile il vaccino, e quindi almeno tra un anno e mezzo.

Nel frattempo distanziamento sociale e orecchie basse: in caso di sintomi è opportuno sentire il proprio medico di famiglia il prima possibile (se si lascia correre, possono essere guai seri) e seguirne le indicazioni.
Tra gli anti-infiammatori da banco, potendosela permettere (e quindi non avendo problemi di coagulazione o di ulcera) continuo a pensare che l’aspirina, invece del paracetamolo, possa avere un ruolo significativo in fase iniziale e alle dosi raccomandate: riduce la febbre alta, blocca l’espressione di NFkB (un fattore di trascrizione cellulare  che attiva le citochine pro-infiammatorie) ed è un antitrombotico.
Durante l’epidemia di Spagnola i medici arrivavano a darne 30 g/die ai malati nel tentativo di bloccare la tempesta citochinica.
Peccato che molti pazienti poi morissero per l’aspirina (Salicylates and Pandemic Influenza Mortality, 1918–1919 Pharmacology, Pathology, and Historic Evidence).
Vabbe’…

Sempre cum grano salis, eh?
E comunque questi non sono consigli terapeutici, che non posso dare.

Spero che questo sia davvero il mio ultimo post sull’argomento in chiave medica e di tornare quanto prima ai miei soliti temi.

Di nuovo in bocca al lupo a tutti/e.

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