Cinque storie ridicole
Estate 2003 - Un tragicomico resoconto

Tutto questo ebbe inizio… tre? Quattro mesi fa? Non ricordo.
Io e Giovanni avevamo appena ripetuto una delle innumerevoli vie a chiodatura industriale sul fianco destro della val d’Adige e stavamo risistemando il materiale prima di scendere all’auto.
“Perché non scrivi qualcosa di quest’estate?”, se n’era venuto fuori il mio collega.
“Scrivere? Che cosa?”
“Ma sì, dai. Tu che sei bravo… Qualcosa di comico… sul Capucin… o sulla Soldà…”.
“Qualcosa di comico… Mmm… Non ho tempo…”, avevo concluso.
Ne avevamo discusso ancora un paio di minuti, poi eravamo scesi. Io consideravo la questione chiusa: non se ne sarebbe più parlato.
Ciò nonostante, per tutti questi mesi non avevo fatto altro che ricacciare nel subconscio l’idea, che riemergeva con una costanza ossessionante.
“Scrivere di montagna?”, pensavo. “Magari qualcosa tipo “Tre uomini in croda”? Ci ho già provato, con scarsi risultati”.
Ma l’idea continuava a ripresentarsi nella mia mente: “Scrivi, scrivi, scrivi”.
Così, eccomi.
Almeno il tormento sarà fuori di me e non a brontolare come una pentola di fagioli in ebollizione nella mia testa vuota.

Il fatto è, Giovanni, che non mi è facile scrivere con ironia di montagna. Quando arrampico, oscillo tra tre stati d’animo: noia sul facile, paura sul difficile da secondo e una fredda concentrazione senza emozioni sul difficile da primo. E nessuna di queste tre situazioni è realmente comica. Vuoi qualche esempio?

Primo caso: noia.

“Stavamo percorrendo una via che era la copia di innumerevoli altre. Spezzavano la monotonia dell’azione solo le occasionali interruzioni per piazzare una protezione o attrezzare una sosta. Il paesaggio attorno era immutabilmente bello, ma proprio per questo vagamente nauseante.
“Ah, che mal di piedi! Ma quando finirà questo tormento?”, pensavo. “Non vedo l’ora di un cappuccino””.


Ecco, il risultato è questo.
Si sorride solo per l’accenno al cappuccino, del tutto fuori contesto.

Secondo caso: paura.

“Stavamo entrando nel ventre oscuro e strapiombante della parete.
La montagna, nella livida luce del mattino, era spaventosa, un mostro terrificante, i suoi pilastri enormi zampe dotate di artigli, le sue fessure bocche spalancate e le creste denti aguzzi pronti a divorarmi”.


Ridicolo? Involontariamente, a causa delle immagini utilizzate, che creano un clima da falsa tragedia.

Terzo caso: concentrazione.

“Ero partito per il tiro. Non sapevo bene se superare lo strapiombo a destra o a sinistra. Scelsi per la destra. Tre - quattro trazioni violente su tacche mi portarono a superare il primo bombamento. Piazzai una protezione e proseguii sbuffando lungo la fessura soprastante”.

Ora è l’enfasi a suscitare nel lettore un vago sorriso di commiserazione: vanteria malcelata?
Sì, è difficile scrivere con ironia di montagna: le emozioni sono troppo intense ed elementari, tanto che, a risultare comico, spesso è proprio il tentativo di scriverne.

Forse, stavo pensando, si potrebbero ottenere effetti interessanti creando “cornici” insolite attorno alle situazioni. Qualcosa del genere, insomma.

“Mi rivedo arrampicare nei contorti camini della Vinatzer, in Marmolada.
Sono da secondo e… tremolo. Sono tutto un tremolio: gambe, braccia, denti. So che cosa sta pensando il mio me stesso, là nella scena: che la montagna, intorno, sia un immane drago, un essere mostruoso pronto a divorarlo. Ecco: i bordi del camino sono fauci, le creste scaglie, le lame unghie, le nicchie e le grotte occhi. Allora allargo un po’ lo sguardo per contemplare l’aspetto di quel mostruoso essere e…”.

Ops! Il mio me stesso nella scena sta per essere divorato da un… grottesco drago disneyano!
Ma la cosa funziona solo in parte: l’insieme è artificioso. Riesci ad immaginare che, mentre saliamo la Vinatzer, un drago da cartoni animati, stile “Fantasia”, ci guardi voluttuoso, confuso tra i pilastri di Punta Rocca?
Davvero?
Allora sei matto come me.

O, ancora, potrei provare a “completare la scena” con avvenimenti che creino un “effetto sorpresa”, capovolgendo i presupposti iniziali: trasformare l’abilità in goffaggine, o la forza in debolezza. Qualcosa tipo:

“Allora parti?”
“Parto”.
“Sei carico?”
“Sono carico”.
Partii. Arrivai sotto lo strapiombo, piazzando un ottimo friend. Presi un buon appiglio per la mano destra, ruotai il busto a destra ed allungai la mano sinistra verso una tacca in alto. Sollevai il piede sinistro su un ripiano appena accennato, trazionai di braccio sinistro, bloccai di spalla, presi un rinvio, lo infilai nel chiodo e… mi ci appesi vergognosamente”.


Il risultato è quasi gradevole, ma il dato comico è accidentale, inessenziale al racconto. E poi, tutti quegli inutili particolari… No, ci vuole qualche cosa di più. Il comico deve essere parte della storia.

Che cosa? Dici che sto irreggimentando troppo l’immaginazione?
Pensi che dovrei lasciar vagare liberamente il pensiero e aspettare che, dal fondo oscuro e creativo dell’inconscio, emerga qualche monstrum comico, qualche improbabile guazzabuglio che, come desiderato, debba solo a se stesso la sua comicità?
Mah… Ci credo poco. Che funzioni, dico.
Comunque lascio vagare la mente e attendo…

Però, ecco… Alcune immagini indistinte iniziano ad emergere… Vedo… Vedo…

Vedo… Gino e il me stesso di cinque mesi fa sotto l’arco strapiombante che, sulla via dei Sudtirolesi, Marmolada di Rocca, porta verso destra, alla cengia mediana. Lui sta partendo dalla sosta, mentre io arrivo. Una fettuccia infilata da Dario in una clessidra non vuole saperne di uscire. Allora Gino prende la sua mazzetta da alpinista muratore e sferra due colpi ben assestati alla clessidra, polverizzandola. E distruggendomi mezza sosta.
“Visto quanto tengono?”, fa lui.
Era una bella clessidra. Quattro-cinque centimetri di diametro per due. E si è rotta in un niente.
“Già, visto”.
Ripenso a Larcher che, commentando una calata in doppia sul Pesce, su ALP scriveva: “Il tiro chiave è pieno di bellissime clessidre. Ci si può proteggere ottimamente ovunque”.
Mah…
Mi immagino Larcher precipitare con i suoi novanta e più chili sul tiro chiave del Pesce e distruggere, una a una, in un volo a strappo, tutte le clessidre mentre grida: “Meerdaaa…”.
Ovviamente questo, a Larcher, non è successo, perché lui, il Pesce, lo ha ripetuto in libera.
E se mai dovesse capitare a me?


Meglio? Dici?
In effetti un po’ si ridacchia. L’effetto comico sembra legato al fatto che, all’interno di un contesto che dovrebbe avere un suo solido senso e una coerenza interna (nell’inconscio di tutti gli alpinisti giace la convinzione che le clessidre offrano solidi punti di sicurezza), compare un elemento inaspettato. E questo, pur appartenendo alle possibilità logiche insite nella situazione, ne deforma paradossalmente i presupposti di fondo, alterandone senso e coerenza. Tanto che si potrebbe concludere il racconto con una saggia massima, alla Murphy: “Se c’è qualcosa che può rompersi, state tranquilli: si romperà”.

Mentre raziocinavo, il mio contorto inconscio ha prodotto un altro oggetto mentale non identificato, che passo subito a presentarti, onde evitare di dimenticarlo.

Via del Calice, Torre Innerkofler, Sassolungo. Sono ancora con Gino.
Ho tanta fretta di partire che lascio alla base la relazione: la linea è talmente evidente…
E così, dopo qualche tiro, ci ritroviamo a vagare per la parete senza sapere bene su che via siamo. Dopo uno strapiombo con roccia scagliosa e un traverso a sinistra arrivo ad una sosta ben attrezzata. Gino passa davanti e, per qualche oscuro motivo, ignora l’evidente diedro sopra la sosta, obliqua a destra, si ferma dopo un po’ e attrezza un punto di fermata con due friend infilati nei due unici buchi svasati di una placca compatta. Io lo raggiungo senza sapere nulla di tutto ciò. Della sosta, dico.
Ovviamente dopo tocca a me. Anche sopra la placca è compatta. Compatta come i fianchi di una velina.
Beh, non proprio così compatta.
Diciamo “come i fianchi di una velina con la cellulite”. Qualche svaso c’è. Però non è buono né per i friend, né per i nut. E, se volassi…
Invece va tutto bene.
Tornato a casa, chiedo in giro dove passi la via. Ne ricevo almeno dieci versioni differenti e, alla fine, concludo che il tiro su strapiombo marcio era sulla linea (checché ne dicano gli amici consultati) e la placca di Gino una variante a destra dei diedri della via originale.


Morale della favola, in rigoroso stile “Murphy”: “L’arrampicata è come la vita: credi di essere in un posto e di stare facendo una cosa, mentre sei in tutt’altro posto e non sai nemmeno lontanamente che cosa stai facendo”.
Curioso, vero?
Questo giochetto di cercare il comico nell’arrampicatorio è come se illuminasse aspetti oscuri della vita. O meglio, come se contribuisse a rendere misterioso, ma in una maniera sottile e inquietante, ciò che normalmente noi diamo per scontato. Come nella storia che segue (ormai il mio oscuro alleato ne produce a raffica; sembra che abbia capito).

Spigolo Sud del Pilastro della Plote, Creta da Cjanevate, via Mazzilis-Moro. Sto puntando alla via da tempo e, al primo week end con meteo incerta ad ovest, convinco te e Ralf ad accompagnarmi nella mia terra d’origine.
Mazzilis, nella sua guida, propone un avvicinamento alla parete che, nei fatti, si rivela contorto e inutile. Forse all’origine intendeva far passare i ripetitori per Casera Plotta dove, fino a qualche tempo fa, facevano da casari alcuni suoi amici. Ma ora la casera è deserta.
Seccati dalla divagazione, risaliamo in tutta fretta alle pareti, un frammento di Marmolada piantato nel mezzo delle Alpi Carniche. La salita è senza storia. Roccia bella e via con sporadiche, ma buone protezioni.
Come? Il comico dov’è?
In fundo, come il dolce.
Arriviamo in cima. Mentre stiamo salendo una scarpata di rocce smosse per raggiungere il sentiero di discesa, tu sei davanti e fai partire un blocco, una specie di dado calcareo di quindici centimetri per lato. Quello, con la tipica innocenza delle cose inanimate, saltella un po’ di qua e di là e conclude la sua corsa incerta… proprio sul mio alluce destro. Vedo le stelle e ti maledico.


Sorge spontanea la domanda: “Com’è possibile che eventi causali (un sasso che rotola lungo un pendio irregolare largo cento metri), rivelino alla fine una intrinseca finalità negativa, non nell’ordine globale dell’universo, ma in quello della tua insignificante vita?”
E altrettanto spontanea una risposta tipo: “Se un oggetto contundente ha qualche vaga possibilità di colpirti, lo farà. Almeno evita di muoverti: risparmierai fatica”?
O ancora, quarta storia…

Voyage selon Gulliver, Grand Capucin. Alla fine Ralf è riuscito a strappare il nostro assenso, il tuo, il mio e quello di Dario. Così eccoci qui, nel bel mezzo della Combe Maudit.
A dire il vero la Combe di maudit oggi ha ben poco. Riluce ovunque di omarini colorati che la attraversano in lungo e in largo o se ne stanno appesi qua e là sulle pareti come ninnoli di mostruosi alberi di natale rosso granito. C’è anche tanto di tendopoli, laggiù in fondo. Voci allegre provengono da ogni dove. E la temperatura, alle 10 di mattina, è da spiaggia (foto).
Che ci siamo sbagliati? Siamo forse finiti a Rimini? E quei rossi pilastri laggiù sono forse miraggi di una troppo calda giornata agostana?
No, siamo proprio sulla Combe Maudit. Passo passo arriviamo sotto la parete e attacchiamo (da Elixir) con la ridanciana incoscienza di chi crede di essere al mare, in mezzo ad una folla di turisti svagati, a divertirsi, mentre sta in realtà cacciandosi tra i denti del drago.
Le difficoltà della via contribuiscono a disorientare.
Primo tiro, 6b di fessura verticale e tetto.
Secondo tiro, 6c: placca finale a tacche piccole e con l’ultima protezione precaria e distante. La chiodatura fa il grado (foto).
Terzo tiro, 6a da contorsionisti in diedro appena accennato.
Quarto tiro, 5+ a gradoni (foto).
Quinto tiro, 6b muretto e piccolo tetto di difficile impostazione, poi continuità.
Sesto tiro, 6c+: placca e fessura strana col trucco, poi ancora placca venduta più difficile di quello che è (foto).
Settimo tiro, 6b+: breve gironzolare contorto tra fessure e placche verso sinistra.
Ottavo tiro, 6b/Ao: diedro inclinato, poi pendolo e fessura obliqua enigmatica. Ralf sbaglia la misura del friend destinato alla fessura e vola, un bel volo di sei metri circa, senza conseguenze. Poi si complica la vita saltando uno spit luccicante in alto a destra (foto - foto).
Nono tiro, 6a: diedro balordo e tossico. Lo trovo più difficile di quanto non sia.
Decimo tiro, 6c: placca e poi diedro strano. Ralf ne ha ragione al limite del volo.
Undicesimo tiro, 6c/7a: parto tremolando, come da tradizione. Poi, miracolosamente supero la prima fessura, il traverso a sinistra, la seconda fessura, riposino, il primo muretto di 7a, un lungo tratto non proteggibile, riposino e l’ultimo passo secco d’uscita. Come avrò fatto? Non lo so.
Dodicesimo tiro, 6c/7a nemmeno lontanamente parente di quello precedente, faticoso e complicato: un sistema di fessure con un primo tratto fisico, un secondo di difficile impostazione e un terzo di resistenza. Quando arrivo all’ultimo pendolo, sono costretto a fermarmi perché Ralf, che mi sta recuperando in sosta, non ce la fa più. È piegato su se stesso e, sotto i miei occhi attoniti, si produce in uno spettacolare getto di vomito che, nel cadere, si polverizza e si trasforma in un iridescente nube di acqua e succhi gastrici diretta verso una sventurata cordata in discesa, più sotto.
Poi tu e lui vi calate, ricordi?, mentre io e Dario concludiamo la via.
Solo la sera, al tramonto, la parete ritorna severa. Silenzio e freddo.
Eccolo, il drago, che ritorna e ghigna, facendo scintillare i suoi denti aguzzi. Non è più il drago di Disney, adesso.
Io e Dario arriviamo alla base della parete mentre a sud ovest il cielo si colora di indaco e violetto e una sottile falce di luna si alza sulle creste. L’aria è limpidissima.
Ci rivedo, laggiù, in piena Combe Maudit, adesso sì degna del suo nome, zampettare a più non posso per tornare al rifugio. Tu e io davanti, a procedere a tappe forzate per evitare di passare la notte fuori, e Dario con Ralf, stroncato dalla quota, dietro.
Ma il mostro non sferra la sua ultima zampata. Sorride con i suoi denti di pietra, mentre un filo di vento tiepido porta via anche i rumori degli ultimi crolli tra i seracchi.


“Non vi alcuna situazione potenzialmente sublime”, non potrebbe trattenersi dal commentare Murphy, “che non possa trasformarsi in triviale. E non vi è alcuna situazione triviale che non si possa aprire a…”. A che cosa? All’indicibile?
Non riesco a chiudere bene l’assioma.
C’è qualche cosa che non va.
Sì la vita spesso è questo mix di sublime e triviale. E il triviale nel sublime lo depotenzia. Ma vi è poi un ritorno di qualcosa di indefinibile che smorza a sua volta il triviale. O che incanta il pensiero per la coesistenza dei due e che ci si para di fronte come un enigma. E su questo, se ridacchio, te lo dico sinceramente, lo faccio con una certa inquietudine.

Quinta storia. Marmolada di Penìa, Via Soldà-Conforto, una via per tutti e per nessuno, nietszcheiana, almeno nelle condizioni nelle quali l’abbiamo ripetuta noi.
In una delle più belle mattine di settembre arriviamo sotto lo spigolo di Punta Penìa.
Due mesi fa non era stato così facile: la nebbia, per poco, non ci impediva di trovare l’attacco della Via dei Sudtirolesi. Invece, questa volta, tutto è perfetto.
Io ho già fatto i miei calcoli: primo terzo a te, secondo, sostenuto ma non estremo, a me e terzo, con tre tiri facili, uno medio e uno davvero tosto, a Ralf, l’uomo di punta della cordata.
Ma lui chiede di fare il secondo terzo. Teme per la quota. Non posso che accettare e sperare di essere all’altezza del "settimo meno" (gradi Marmolada) che incontrerò più sopra.
Partiamo.
Tu, forse respinto dai gialli strapiombanti che ci aspettano più sopra, tendi a tenere la sinistra e perdi la sosta. Ma Ralf ritrova subito la retta via, la rampa di "quinto" che porta sotto le rocce incombenti della sezione mediana, e, inflessibile, rispedisce la cordata incontro al suo destino.
Poi è il suo turno (foto). I “quinti” e i “sesti” prima della cengia sono degni della fama della parete. E addirittura allucinogeni i due “sesti più” dei camini (foto).
Sì, “allucinogeni”: la roccia gialla, il cielo azzurro, il sole, la termica che si abbatte con fragore sulla parete, i movimenti psichedelici cui ci costringe la conformazione della roccia portano ben presto tutti e tre in uno stato alterato (foto). E così, quando tocca a me passare davanti, mi apostrofi con un “Vai, Mandrake” che mi lascia un po’ perplesso.
Sarà il mio abbigliamento curioso? Forse la tuta nera? O le scarpette arancioni? O la giacca a vento verde che, gonfiata dalle correnti di salita, dà l’impressione che il vento mi sospinga verso l’alto? (foto).
Peccato che non abbia i baffi e che, diversamente da Rieser, abbia lasciato a casa tuba e frac. Inoltre il vento non mi sospinge per niente: nessun eolico sconto di fatica per tutti i quaranta metri dell’infinita fessura terminale.
E poi ci sono ancora i facili tiri nel budello conclusivo.
Al penultimo, mentre siamo in sosta, da sopra parte una scarica.
Evidentemente i sassi della Cjanevate hanno una forma di comunicazione mistica con quelli della Marmolada perché, nonostante mi accucci sotto un rigonfiamento del canale, una pietra mi centra in pieno l’alluce destro. Sì, proprio
quello.
Allora io mi alzo per spostare il piede, in effetti un po’ esposto, ma vengo colpito da una gragnola di sassi in testa. Mi abbasso di nuovo, rimetto il piede dov’era prima e… pem!, un altro sasso sull’alluce.
“Heyyy, lassùuu, deeeficeeentiiii! C’è gente, qui sottoooo!”, grido.
Mi rispondono solo le ultime pietre che, rimbalzando da una parte all’altra del canale, con sonori “tric - trac” annunciano l’esaurimento della scarica.
Poi, il silenzio.
“Hem, forse non c’è nessuno, lassù”, fa Ralf.
Come a dire: inutile sprecare fiato.
Riparto zoppicando e arrivo in cima.
Sei, sette oggetti volanti colorati, deltaplani, parapendii volteggiano nel cielo azzurro sopra il piano eterno di Punta Penìa, mentre un giallo e tiepido sole autunnale è a tre quarti del suo cammino. Una bandiera della pace sventola senza apparente rumore, là, vicino al rifugio, chiuso.
Arrivate anche voi. Poi tu insisti per scattare una foto. Ce l’ho qui davanti a me, negli occhi della mente (foto).
Io e Ralf siamo in posa, sghembi.
C’è poco da sghignazzare. Anche tu, dietro la macchina fotografica, sei sghembo. Almeno quanto noi.
Io non vorrei più scendere. Forse sono stanco, o, forse, catturato da quel quid innominabile, quello stato di sospensione del tempo, che talvolta mi capita di sperimentare nei posti più strani: sullo Spallone del Crozzon di Brenta, sulla cima di Monte Oddeu, o in Maddalena, la falesia di casa, nelle limpide sere d’inverno. È come se tutto si fermasse e rivelasse una pienezza nascosta, l’essenza scintillante del mondo (foto).
Ma è solo un attimo: so (o credo di sapere) che è un inganno dei sensi alterati dalla fatica. E so (o credo di sapere) che non vi sono “mondi oltre il mondo” e che tutto è qui, anzi giù a valle dove gli uomini si affaccendano a creare il loro mondo frenetico.
Ma mi distacco a fatica. È come se l’abisso di luce mi avesse invischiato.

In realtà il sole sta calando.
Ecco, ci rivedo mentre ci precipitiamo a rotta di collo lungo la ferrata ad evitare che il buio della notte ci avvolga. Non facciamo nemmeno a tempo ad arrivare al rifugio che Ralf si piega e, di nuovo, vomita.
Molto meno spettacolare, questa volta.
Dobbiamo scendere in fretta.
Dal Contrin a Penìa, dove abbiamo lasciato l’auto, è un’ora e mezza di cammino. Ci avviamo, mentre le ombre hanno ormai preso possesso della valle.
Qualche raro grillo canta ancora nei prati dai quali sale, assieme all’umidità, un odore di terra, di bosco, di fieno fermentato. Il Sassolungo si staglia davanti a noi, un’ombra nera contro il cielo blu cupo. Striature rosse e arancio a sinistra della frastagliata massa oscura sono gli ultimi resti di un tramonto che dev’essere stato sfolgorante.
“Che bello!”, penso. “Meno male che siamo scesi a quest’ora. Non mi sarei perso questo spettacolo per nulla al mondo”.
E sto addirittura fantasticando che sarebbe magnifico lasciarsi avvolgere dall’oscurità e sparire, che ne so, nel grembo silenzioso del nulla, quando una jeep ci passa a fianco. Sono due ragazzi di Canazei (fratello e sorella? Fidanzato e fidanzata?) che, impietositi, ci caricano.
Il resto della discesa è un emozionante ballonzolare tra un tornante e l’altro con i fari che sciabolano l’oscurità, i freni dell’auto che stridono e le sospensioni che cigolano.
Forse, nel grembo del nulla, ci finiamo davvero, ma non nel modo che avevo immaginato.
Invece tutto si conclude bene. Arriviamo al parcheggio, saliamo in macchina e ripartiamo per il mondo della bassura e della dimenticanza.


Che cosa direbbe Murphy a commento della storia?
Qualcosa tipo “Nel momento in cui sei sul punto di scoprire la mistica risposta all’ultimativo quiz cosmico, puoi star sicuro che un evento del tutto aleatorio infrangerà la limpidezza cristallina della rivelazione”?
Non lo so.
So solo quello che viene spontaneo pensare a me.
A che cosa ho assistito sulla Combe Maudit e in cima a Punta Penìa? È qualcosa che ha a che fare con la natura intima del mondo?
E come mai è così intriso di assurdo, di grottesco, di… ridicolo?
Ma non ho risposte.

Ecco, Giovanni.
Questo è il meglio che sono riuscito a produrre. Ti è piaciuto? È abbastanza comico?
Se non lo è, puoi sempre leggerlo mentre tua figlia Luisa ti fa il solletico.
Ciao.

Sandro

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